giovedì 9 aprile 2009

PASTA,FAGIOLI E MENZOGNE ALL'AMBASCIATA

PASTA, FAGIOLI E MENZOGNE ALL’AMBASCIATA

Lettera aperta di Silvano Girotto alla signora Antonella Dolci, autrice dell’articolo “Pasta e fagioli all’Ambasciata” pubblicato dalla FILEF
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PASTA, FAGIOLI E MENZOGNE ALL’AMBASCIATA

Lettera aperta di Silvano Girotto alla signora Antonella Dolci, autrice dell’articolo “Pasta e fagioli all’Ambasciata” pubblicato dalla FILEF

Sono stato informato da un amico dell’esistenza di un articolo da lei scritto in cui ci sono dei riferimenti alla mia persona.
Mi trovo da molti anni in Etiopia dove presto la mia opera come volontario in una istituzione al servizio dei più poveri e le realtà che vivo ogni giorno sono tali da rendermi difficile tornare ad occuparmi di avvenimenti ormai consegnati alla storia ma se mi sono deciso a scrivere non senza un senso di fastidio queste righe è perché, al di là di una istintiva reazione ad insulti gratuiti, non mi pare giusto che lei possa propinare ai suoi lettori una serie di menzogne.
Ho trovato nel suo articolo alcuni nomi e situazioni veritieri sulla condizione dei rifugiati nella nostra sede diplomatica quando il Cile fu sconvolto da una immensa tragedia. Non ho alcun ricordo di lei come persona fisica ma la descrizione che fa di me, simile a centinaia di altre dello stesso taglio, tutte provenienti dall’area ideologica a cui lei appartiene, mi permette di farmi un’idea del suo profilo umano e culturale.
Innanzitutto alcuni rilievi sul contenuto dell’articolo.

Quando giunsi in Ambasciata, pochi giorni dopo il golpe, ero stato effettivamente ferito mentre nella “ poblaciòn” La Bandera, con alcuni compagni del MAPU e del MIR boliviano (ideologicamente assai distante da quello cileno situato nell’area extraparlamentare mentre noi eravamo organicamente inseriti nelle strutture di Unidad Popular) cercavamo di contrastare in qualche modo i militari.
- E’ vero che fui ricoverato in una stanzetta al piano superiore (si trattava di una specie di cucinotta in cui i funzionari si preparavano il caffè), chiamarono un medico che mi curò e non fu un trattamento speciale per un “ospite di riguardo” bensì doverosa assistenza prestata ad una ferito in base ad elementari principi di umanità
- E’ vero che dopo alcuni giorni fui raggiunto da mia moglie, regolarmente sposata alcuni mesi prima, boliviana anche lei militante attivamente ricercata dagli sgherri di Pinochet causa il suo ruolo di agente di collegamento tra l’Ambasciata Cubana e il MIR boliviano.
- E’ vero che ero armato. Una necessità divenuta abitudine per chi come me e molti altri
aveva fatto una concreta scelta di campo avendo come avversari gli squadroni della morte al soldo della dittatura boliviana ed era abituato a considerare che ogni levar del sole avrebbe potuto essere l’ultimo. I miei compagni ed io non sognavamo la dittatura del proletariato stando tranquillamente seduti dietro una scrivania tra pile di libri dai contenuti astrusi, vivendo comodamente grazie alle prebende, certo succose in quel contesto, pagate dall’Istituo Italiano di Cultura (lei stessa si definisce “impiegata dello stato italiano”) cioè dai contribuenti italiani tali da permetterle di possedere un’automobile, lusso assoluto nel Cile di Allende, e vivere in una casetta con tanto di pergola e vista sulla cordigliera. I miei compagni boliviani ed io, nei rari momenti in cui ci fermavamo in Cile che era la nostra base logistica essendo la Bolivia il nostro campo d’azione, vivevamo invece in una “poblaciòn” , bidonville di periferia, tra la povera gente. Tra incredibili difficoltà e senza sognare di costruire un paradiso per tutta l’umanità (come recita la versione spagnola de “L’Internazionale”, inno sacro comunista) lottavamo per il puro e semplice ritorno della democrazia nel nostro paese. Sa come chiamavamo quelli come lei? “pajeadores”, cioè persone dedite alla masturbazione intellettuale che teorizzavano all’infinito la revoluciòn ma totalmente incapaci di scendere sul terreno pratico sperimentando i rischi e le sofferenze della lotta per costruire un mondo più giusto.

Scrivendo di me lei riporta dunque alcune piccole verità, peraltro anche descritte nel mio libro, ma subito dopo formula una serie di insinuazioni astiose e affermazioni assai maldestre con l’evidente intenzione di mettermi in cattiva luce. La mia foto col mitra in mano e una “pesante croce” (??) al collo attorniato da “piccolissimi” contadini boliviani. Piuttosto ridicola come descrizione e certo i suoi lettori concorderanno. Le vengo in aiuto: quella foto, che conservo ancora, è del periodo in cui ero parroco in un angolo sperduto del Chapare boliviano, propaggine della foresta amazzonica, e quei “piccolissimi” altro non erano che i bimbi della mia parrocchia. Portavo allora una crocetta di legno al collo, unico segno del mio ministero, ma nessun “mitra in mano”. Il periodo doloroso in cui per solidarietà con la mia gente dovetti imbracciare un’arma era ancora lontano.
Evidentemente lei ha ricordi molto confusi che butta giù disordinatamente pensando che in fin dei conti nessuno potrà smentirla, ma su questo punto sbaglia.
Da quando avevo incontrato dei giornalisti del Corriere della Sera per una intervista nella clandestinità in Bolivia, in Italia circolavano foto mie. Si era trattato di una iniziativa assunta in pieno accordo e su precise istruzioni dell’organizzazione combattente di cui facevo parte desiderosa di far conoscere all’esterno un movimento di resistenza che la feroce dittatura boliviana si ostinava a negare. Che lei definisca “strana” la pubblicazione delle stesse dopo che i funzionari dell’Ambasciata e non io avevano dato comunicazione in Italia della mia presenza è un’altra valutazione, questa sì davvero strana, che le appartiene. I giornalisti fanno il loro mestiere e, se si parla di qualcuno di cui ci sono foto in giro, le pubblicano. O vuole insinuare che i giornalisti del Corriere erano anche loro impegnati in chissà quali strane macchinazioni? Ma per favore, signora mia…

- Lei scrive che il quotidiano filogovernativo “El Mercurio” indurì la sua campagna contro gli esuli in ambasciata “in corrispondenza con l’arrivo di Silvano Girotti” (sic)…

Altra affermazione decisamente stupida oltre che falsa. Quale nesso potrebbe esserci tra il mio arrivo in quel luogo e la recrudescenza di una campagna di stampa che effettivamente ci fu ma molto tempo dopo il mio arrivo? In che modo avrei potuto interagire con il quotidiano governativo ? Lei dice che i militari in elicottero fotografavano gli esuli in piscina, ma “Girotti” (..) che ruolo aveva, dirigeva il volo degli elicotteri? Un po’ di rispetto per la logica dovrebbe esserci anche quando si raccontano panzane, non crede?
Al di là di queste semplici considerazioni c’è la verità dei fatti a confutare quanto lei dice: giunsi in Ambasciata il 16 settembre, esattamente cinque giorni dopo il golpe e questo è facilmente documentabile scorrendo i giornali italiani di quel periodo. Lei dichiara di esserci arrivata una quindicina di giorni dopo (“nell’ultima settimana di settembre”) e questo clamoroso lapsus basterebbe già a caratterizzare come totalmente menzogneri i riferimenti alla mia persona dal momento che lei afferma di aver assisistito al mio arrivo! Ma andiamo avanti: in quei primi giorni le richieste di asilo erano rivolte (lo dice anche lei) alle ambasciate latino americane e non a quelle europee mai fino ad allora coinvolte, tanto è vero che i militari non le presidiavano e solo gradualmente col passare dei giorni e delle settimane l’afflusso a queste divenne significativo. Quando giunsi c’erano poche persone, diciamo una decina o forse meno, e l’unico italiano presente era Paolo Hutter, torinese militante di Lotta Continua con cui abbi rapporti del tutto amichevoli. Peccato che posteriormente, dopo la cattura dei capi BR, anche lui obbedendo a ordini di scuderia contribuisse a diffondere maldicenze sul mio conto.
Lei dunque non c’era quando io arrivai e trovo ben strano che quando giunse, se giunse, non ci sia stato il minimo contatto tra noi che altrimenti ricorderei. In fin dei conti eravamo solo tre italiani essendo gli altri italo cileni, e non erano molti neppure questi…. Ricordo benissimo i signori Vaccaro che avevano due bambini, la più grandicella di nome Vanessa aveva circa sei anni, ma non ricordo lei. Eppure mia moglie ed io una donna con un bebè di tre mesi, una dei soli tre italiani presenti, la ricorderemmo senz’altro. Strano, davvero strano….
Saremmo rimasti due mesi insieme in quel recinto non piccolo ma neppure sconfinato in cui le stesse persone si incontravano decine di volte al giorno e lei non mi rivolse mai la parola, nemmeno uno sguardo in cagnesco, una battutaccia, uno sgambetto dato che era così carica di livore nei miei confronti ? Strano, davvero strano…
Neppure ricordiamo le frotte di bambini in tenera età di cui lei parla. Ma è proprio sicura di esserci stata in Ambasciata o il suo scritto è frutto della lettura di relazioni e racconti di chi c’è stato davvero, senza escludere i miei libri, e con il suo esercizio letterario alquanto mediocre cerca di accreditarsi come concorrente di Sepulveda?
Torniamo a noi: quello che appare chiaro è che in quel primo periodo la sede diplomatica non era affollata, la piscina era deserta perché dato il clima gradevolmente temperato di Santiago in settembre la temperatura non era ancora tale da invitare al bagno (lei stessa parla di clima primaverile…) e i militari non prendevano ancora in seria considerazione l’ambasciata d’Italia quindi niente elicotteri. Come la mettiamo allora con l’indurirsi della campagna “in corrispondenza” col mio arrivo?
Anche qui lei mente sapendo di mentire.

Ci sono poi un paio di autentiche perle nelle sue descrizioni: una riguarda un fantomatico giovane boliviano che mi prendeva continuamente a male parole e una sera mi prese addirittura a cazzotti. Ecco un’altra bugia colossale. Chiunque mi conosca non può che ritenere alquanto improbabile una situazione del genere, e con ragione. Confesso di aver sempre provato estrema difficoltà a porgere l’altra guancia ma non è questo il punto.
Secondo lei questo giovanotto era motivato da sete di vendetta per essere stato io uno che in Bolivia andava di villaggio in villaggio seguito a ruota dai poliziotti che arrestavano gli oppositori alla dittatura.
Qualsiasi persona di buon senso storcerebbe il naso sentendo una descrizione così puerile. Anche una intellettuale come lei che di lotta sul terreno non capisce un accidente dovrebbe intuire che la storia non regge: uno che fosse andato di villaggio in villaggio compiendo simili prodezze avrebbe avuto vita corta in Bolivia dove i compagni combattenti avevano per necessità vitale la mano pesante con i delatori. A farsi menare da un ragazzetto nell’Ambasciata il delatore professionista non sarebbe mai arrivato, mi creda Antonella. Inoltre durante la dittatura del colonnello Banzer non c’era alcun movimento di resistenza nelle campagne. ELN e MIR, uniche due organizzazioni combattenti, agivano nei centri urbani, fondamentalmente La Paz, Cochabamba e Santa Cruz, e non c’era proprio nessun resistente nei villaggi. Neanche uno. Anche i leaders di origine campesina si nascondevano nelle città dove la clandestinità era un po’ meno problematica. Tutto ciò è facilmente dimostrabile e lei dovrebbe informarsi meglio prima elaborare a vanvera menzogne inquadrandole in contesti che non conosce.
In ogni caso, al di là di queste considerazioni è assolutamente certo che nessun boliviano oltre a mia moglie chiese mai asilo all’Ambasciata Italiana, per lo meno tra il settembre e il novembre ’73, e questa è una smentita categorica che sfido chiunque a confutare.

L’altra perla riguarda i miei “calzini color lavanda nella identica tonalità del foulard”. Questo passaggio ho dovuto rileggerlo diverse volte per convincermi che era proprio scritto così. Lei, nell’affanno di mettermi in cattiva luce non si è neppure resa conto di cadere nel ridicolo.
Tenni per qualche tempo il braccio al collo per via della ferita e forse i funzionari mi prestarono anche un foulard per questo ma non ricordo il dettaglio. Quanto ai calzini di quel colore, per favore signora, cerchi di essere un po’ seria anche per rispetto verso chi legge.
Tra l’altro, lei che dopo trent’anni cita puntigliosamente il colore dei miei calzini non ricorda neppure bene il mio cognome che fa Girotto e non Girotti affermando anche che ero biondo, ma quando mai, i miei capelli sono sempre stati castani (vada a rivedersi le foto…) O forse vuole insinuare che mi ero pure ossigenato, cosa che associata al color lavanda di foulard e calzini farebbe sorgere altri dubbi?….
Potrei ribattere, tanto per scendere al suo livello, che lei in Ambasciata faceva marchette per tenere su il morale dei compagni ed era per questo soprannominata “ conchita roja” ma lasciamo perdere e cerchiamo per quanto possibile di essere seri.
Lei mente sfacciatamente, cara Antonella, e ricorda o pretende di ricordare solo quello che fa comodo al suo modo di presentare le cose tralasciando episodi ben più significativi dei miei calzini.
Apro una breve parentesi: le dice qualcosa il nome di Mc Guinty? Non so se si scriva proprio così ma si tratta di un membro del Comitato Centrale del Partito Socialista di Carlos Altamirano. Quel signore si aggirava per l’Ambasciata coperto da un pesante cappotto che non toglieva mai neppure quando come tutti noi faceva la fila per andare al cesso. E a ragion veduta: quel cappotto era imbottito di dollari che gli servirono per pagarsi una uscita dalla sede diplomatica con una macchina dell’ambasciata dell’Honduras, paese allora non certo sospettabile di simpatie per i comunistas ma i cui funzionari non badavano ai dettagli quando c’erano in ballo dollari sonanti. Quel signore rimase in Ambasciata pochi giorni e se ne andò lasciando noi poveri cristi sprovvisti di dollari a fare commenti tristi sui “compagni” pezzi grossi dei partiti che se l’erano svignata tutti. Quei pezzi grossi erano stati i primi a sapere che nella notte la marina a Valparaiso aveva dato inizio al golpe e, dimentichi di aver dato alla “Central Unica de Trabajadores” la consegna di occupare ogni luogo di lavoro nelle città e ogni azienda nelle campagne, cosa che avrebbe imposto la presenza dei leaders, sparirono senza neppure diramare un contrordine. Così i militari non fecero altro che andare a prendere operai e contadini nelle trappole in cui si erano raggruppati per ammassarli nello stadio nazionale di tristissima memoria. Trovo singolare che lei a distanza di trent’anni mi descriva con abbondanza di particolari, peraltro del tutto fantasiosi, e dimentichi totalmente episodi e personaggi di cui varrebbe invece la pena di parlare. I miei ricordi sono assai più nitidi dei suoi e potrei raccontare verità documentabili e assai illuminanti su ciò che realmente avvenne in Cile in quegli anni. L’ho anche fatto con un libro ma non vado oltre e chiudo la parentesi.

C’è inoltre l’episodio dei due individui “vestiti uguali” (sic) seduti nell’aereo che ci riportò in Italia. Evidentemente lei allude alla presenza dei servizi segreti, ingrediente irrinunciabile per dare un tocco di mistero ad episodi di per sé banali. Non ricordo di aver visto quei due ma la sua descrizione mi lascia ugualmente perplesso. Perché “vestiti uguali” ? gli 007 non vanno in giro con la divisa! Non avevano per caso anche gli occhiali scuri e un giornale col buco per spiare facendo finta di leggere?
E’ vero che grazie ad un provvidenziale scalo tecnico non previsto, l’aereo si fermò a Torino e io ne approfittai per scendere perché quella è la mia città. Cosa c’è di più logico di una condotta del genere che lei invece trova gravida di significati reconditi? Perché avrei dovuto andare a Roma da cui avrei dovuto risalire nuovamente a Torino? Non avevo il becco di un quattrino tanto è vero che il biglietto per raggiungere con l’autobus navetta la città me lo pagò un gentile signore dell’ufficio bagagli smarriti a cui mi ero rivolto perché facesse tornare da Roma lo zaino con i miei pochi effetti personali che era rimasto sull’aereo.
Dice pure che uscii correndo e i due misteriosi personaggi mi seguirono abbandonando le giacche “uguali”. Non c’era alcun bisogno di correre, cosa peraltro difficile in un aereo, e ripeto che quei due, se mai sono esistiti, non li vidi. Scesi con calma, presentai il mio passaporto alla polizia di frontiera e non ebbi problema alcuno, tanto meno da individui in maniche di camicia come a quel punto dovevano essere quei due.
Tra l’altro, complimenti, lei dopo trentacinque anni non ricorda il colore di miei capelli ma ricorda invece che sull’aereo ero seduto dal lato corridoio. Io non ricordo neppure che ci sia stato uno scalo a Buenos Aires, pensi un po’. I dettagli importanti invece li ricordo, e quelli assai meglio di lei forse perché li ho vissuti davvero….
C’è infine un passaggio a cui, per quanto mi scervelli, proprio non riesco a dare significato: quello in cui afferma che forse scendendo dall’aereo a Torino invece che a Roma tentai di sfuggire ad un “destino annunciato” visto che quasi un anno dopo (e non pochi mesi) feci arrestare i capi delle BR Affermazione senza capo né coda che sfido chiunque a capire.

Concludo i miei commenti al contenuto dell’articolo ripetendo solennemente che laddove si riferisce a me, ma non solo, lei mente sfacciatamente e se ne fosse capace dovrebbe provare vergogna.

Tornai dal Cile alla fine del 1973 (novembre) mentre la mia azione contro le Brigate Rosse risale al settembre 1974, cioè quasi un anno dopo. Durante tutto quel lasso di tempo fui seriamente impegnato a respingere inviti di ogni genere provenienti dal magma di sigle appartenenti alla sinistra extra parlamentare allora particolarmente effervescente. Tutti volevano che comparissi e mi dichiarassi loro simpatizzante data la fama di prete guerrigliero che i giornali mi avevano mio malgrado cucito addosso e a nessuno veniva ancora in mente di rivolgermi insulti. Un novello Camilo Torres nostrano era un boccone ghiotto per un mondo che allora come oggi viveva e vive sui ritmi imposti dal circo mediatico. Mi rendevo perfettamente conto che fossi stato al gioco sfruttando l’onda emozionale causata dagli avvenimenti cileni sarei divenuto una figura di primo piano e magari oggi sarei in Parlamento come è successo con vari personaggi che allora gareggiavano nel fare discorsi esplosivi in nome della rivoluzione proletaria e oggi si muovono nei corridoi del palazzo rigorosamente in giacca e cravatta avendo seppellito l’eskimo all’origine delle loro fortune. Ma non mi sognavo nemmeno di lucrare sui drammi vissuti con tanti compagni onesti e generosi molti dei quali avevano perso la vita. Quegli anni drammatici mi avevano inflitto nell’anima ferite molto più dolorose e profonde di quelle che nella carne avevo riportato combattendo in Bolivia e in Cile, per cui rifiutai ogni pubblcità, trovai un lavoro come operaio metallurgico ed iniziai a costruire la mia nuova vita dopo l’espulsione dall’Ordine Francescano motivata da scelte che avevo rifiutato di rinnegare.
Lei, Dolci Antonella, mi descrive come un malato di protagonismo, ebbene, la sfido a trovare anche una sola intervista o pubblica apparizione nel periodo che seguì al mio rientro in Italia, vale a dire tra il novembre ’73 e il settembre ’74 quando feci arrestare i Capi Storici delle Brigate Rosse. All’origine di quel mio gesto che suscitò enorme scalpore nei ranghi della sinistra c’erano motivi molto seri che in mille occasioni ho esposto trovando comprensione e approvazione da parte di alcuni e ripudio feroce da parte di altri. La sinistra in generale, con in testa il Partito Comunista che manifestava un rifiuto di facciata alle imprese brigatiste ma non aveva per nulla gradito un attacco ai “compagni che sbagliavano”, scatenò nei miei confronti una campagna di stampa spietata con accenti che mi rattristarono pur senza scalfire la mia convinzione mai venuta meno di aver agito bene. Fui definito spia e traditore e, per mascherare la solidarietà di fondo con il fenomeno terrorista rosso che quella campagna rischiava di svelare, si prese a dire che ero un delatore da sempre, che anche in Bolivia e Cile non avevo fatto altro che mandare in galera patrioti, insomma un linciaggio morale a tutto campo al quale feci fronte nell’unico modo possibile per uno come me alle prese con un
meccanismo mostruoso e senza sponde amiche di nessun genere: evitai con cura di apparire, continuai a lavorare normalmente per mantenere la mia famiglia e quantunque si scrisse che ero scappato chissà dove, rimasi a Torino senza mai occultare il mio nome. Non rischiavo gran cosa perché tra la gente normale intenta a guadagnarsi il pane quotidiano era difficile imbattersi in terroristi o loro simpatizzanti.
La sfido anche, signora Dolci Antonella, a trovare un solo articolo di giornale o dichiarazione di chicchessia in cui, PRIMA DEL SETTEMBRE ‘74, mi si rivolgano insulti simili ai suoi o mi si chiami spione e traditore. Assai significativo anche il fatto che tra i miei detrattori (lei è tra loro un personaggio minore e di scarso talento) nessuno abbia mai avuto il coraggio di affermare che la mia azione contro le BR sia stata un atto moralmente censurabile. Tutti indistintamente inventarono tradimenti mai avvenuti dall’altra parte del mondo per dare fondamento ai loro insulti ma l’inizio della campagna denigratoria di cui anche lei si fa portavoce ha una data precisa dal significato inequivocabile: rappresaglia spietata mossa da inconfessabile solidarietà con i terroristi.
Significativo anche il fatto che nessun insulto o malevola insinuazione sia mai giunta direttamente dai miei compagni boliviani con cui ancora oggi mantengo ottimi rapporti. Solo e sempre affermazioni della sinistra febbricitante italiana riprese, rimaneggiate e ingigantite da giornalisti dalla deontologia piuttosto approssimativa e poco inclini a verificare la fondatezza di quanto scrivono.

Infine invito tutti a riflettere su un altro fatto assai significativo: nel 2002 cercai di mia iniziativa un incontro con i capi brigatisti che avevo fatto arrestare nel ’74. Con Curcio ci fu un breve scambio epistolare sereno e senza alcun accento astioso, mentre con Franceschini ci fu un lungo incontro pacato e chiarificatore durante il quale gli esposi le ragioni del mio gesto e alla fine ci abbracciammo.
Recentemente Alberto, che ora considero un amico, ha scritto un libro con Giovanni Fasanella dal titolo "Che cosa sono le Brigate Rosse" ripercorrendo con precisione e ricchezza di dettagli la storia di quell’organizzazione. Considero quel libro un documento prezioso per chi voglia informarsi seriamente sull’argomento. Ebbene, in quell’opera non c’è alcun giudizio negativo sul mio operato ma solo accenni stringati ed essenziali sul come i fatti si svolsero. Nessun insulto, nessun aggettivo offensivo, nessuna falsa elucubrazione sul mio ruolo di delatore internazionale. Eppure si tratta di uno che feci arrestare, un “ Capo Storico”. Ho percepito nell’ atteggiamento di Alberto un atto di onestà intellettuale che gli impedisce di esprimere giudizi. Se oggi lui e il suo compagno possono dire di non avere le mani sporche di sangue sparso inutilmente sono certo che nel profondo della loro coscienza sanno di dovermene attribuire il merito. In fin dei conti il motivo che mi condusse a quella scelta non facile era stato proprio questo e nessun altro: evitare che tante vite preziose fossero spente invano e tanti giovani irretiti da un falso ideale bruciassero la loro vita altrettanto preziosa divenendo brutali assassini. Grazie alle esperienze vissute sulla mia pelle in America Latina vedevo infatti con chiarezza quello che allora nessun ancora vedeva e agii di conseguenza.
Nessun insulto dai Capi Brigatisti e una marea di improperi da parte dei cosiddetti intellettuali di sinistra e da giornalisti di mezza tacca. Ancora una volta, quale grande differenza tra coloro che rischiarono e pagarono duramente il prezzo della coerenza con ideali che purtroppo erano falsi, e i “pajeadores” che senza aver mai rischiato nulla ancora proseguono in loro nome e senza esserne richiesti la rappresaglia nei miei confronti!

Per concludere torniamo a lei, ineffabile Antonella.
Le contraddizioni e le inesattezze di cui il suo scritto è pieno oltre ad omissioni macroscopiche in favore di dettagli secondari al limite del pettegolezzo, che potrei citare ma non voglio dilungarmi oltre, mi fanno sorgere seri dubbi sulla sua effettiva presenza in Ambasciata ma questa è una impressione del tutto personale. Lei mi tira in ballo solo per rendere più interessante il suo scritto e lo fa in quel modo rilanciando falsità partorite dall’ambiente che le è più congeniale. Lei stessa dice di essere stata invitata in Ambasciata assieme all’inviato de L’Unità, giornale ufficiale del partito comunista che allora esisteva ancora.
Quell’ideologia nefasta nel cui nome si sono commessi crimini orrendi, simili se non maggiori di quelli nazisti e fascisti, giace ora nell’immondezzaio della storia. Sono sempre meno quelli che ricordano volentieri di aver militato sotto il vessillo della falce e martello, alcuni per convenienza o pudore e altri perchè hanno ormai capito che la ricetta comunista non allevia le sofferenze dei poveri ma semmai le aggrava. Lei a quanto pare non è tra questi e sono fatti suoi però non avrebbe dovuto permettersi di propinare menzogne alla gente in primo luogo per rispetto alle persone e anche, me lo lasci dire, per non rendere un pessimo servizio ad una istituzione rispettabile come la FILEF che le ha dato fiducia ospitando nel proprio organo di informazione il suo scritto.



Silvano GIROTTO
ADWA – TIGRAY
ETHIOPIA
talgir@ethionet.et